NUOVO CONVEGNO A VICENZA SUL TEMA CACCIA E LETTERATURA

NUOVO CONVEGNO A VICENZA SUL TEMA CACCIA E LETTERATURA

Si è svolto alla Fiera di Vicenza il 23 febbraio nell’ambito della manifestazione Hunting Show.

Con il titolo “CIVILTA’ DELLA CACCIA – STIMOLI LETTERARI E RIFLESSIONI SULLE ESPERIENZE TRA ALPI E APPENNINO“, con lo stimolo del romanzo IL SELETTORE, sono tornati gli autori della narrativa che parlano di caccia per stimolare nuove riflessioni sui temi della passione, dell’etica e della tutela dell’ambiente e del paesaggio, in un incontro che ha visto la partecipazione di personalità come i presidenti Federcaccia (Gian Luca dall’Olio), UNCZA (Sandro Flaim) e URCA (Antonio Drovandi), oltre a Franco Perco, direttore del Parco dei Monti Sibillini, nonché stimato e autorevole docente nelle scuole europee che formano i cacciatori di selezione e all’ambientalista di Mombaroccio (PU) Graziano Giangolini, attivo soprattutto nella difesa del paesaggio, che non ha esitato a chiedere ai cacciatori più sensibili di collaborare alla difesa di questo bene comune.
Ha presieduto l’incontro l’ing. Roberto Ditri, presidente della Fiera di Vicenza e asppassionato cacciatore; moderatore il gironalista Marco Ramanzini, Greentime.

Quello che segue è il testo del mio intervento, con i brani che ho selezionato da Mario Rigoni Stern e Ernest Hemingway.


1
L’idea di trovare nella letteratura spunti autorevoli e coinvolgenti per stimolare riflessioni sul significato che può avere oggi l’andare a caccia, come esseri umani e come cittadini, nasce – per me che non vado a caccia – dai colloqui che ho avuto negli ultimi anni con numerosi cacciatori, in occasione di un evento che ho curato nel 2008 e della stesura di un romanzo, poi pubblicato nel 2010. La prima cosa che mi ha colpito è stata la passione che trapelava dalle parole e dagli sguardi di quegli uomini al solo pensiero di imbracciare il fucile e ritrovarsi prima dell’alba immersi nella natura; poi venni piacevolmente sorpreso dall’orgoglio di molti per il loro ruolo, un orgoglio costruito anche su solide basi morali e su rigorosi modelli di comportamento. Infine l’ambiente, che loro per primi sentivano di voler rispettare, preservare e difendere.
Se tutti i cacciatori, mi dissi, pensassero e sentissero allo stesso modo, come minimo non avremmo più episodi di bracconaggio; e se la gran parte della società civile – che conosce la caccia così come la conoscevo io prima di avvicinare questo mondo, cioè non la conosce per nulla – fosse più informata non solo sulla complessità della questione venatoria, ma anche e soprattutto su “chi è” l’uomo cacciatore, oggi come un tempo, il dialogo sulle questioni ambientali sarebbe più aperto e agevole, al di là delle sensibilità di ciascuno nel rapporto con gli animali.
Ho quindi cercato gli spunti letterari più adatti per introdurre le riflessioni che faremo oggi sui temi della passione, dell’etica e del rapporto con l’ambiente. Gli autori più significativi alla fine sono due: l’americano Ernest Hemingway e l’italiano Mario Rigoni Stern. Ma, come vedrete, i tre argomenti s’intrecciano di continuo nei diversi brani, perché la passione traspare sempre, è come una costante, l’etica ne modula le scelte e l’ambiente è una cornice ineludibile.

A mio avviso ben illustra il senso della passione un episodio della prigionia di guerra raccontatoci di Mario Rigoni Stern, nel quale traspare anche la solidità di un’antica tradizione che è cemento di comportamenti morali che, vedrete, sapranno anche scaldare il cuore.

Dal racconto “I giorni del Nord-Est”, di Mario Rigoni Stern
Una sera di quell’autunno del 1944 entrarono nel lager due civili con le teste canute sotto i cappelli da cacciatore, e s’incontrarono a parlare col comandante. Poco dopo il comandante boemo Hara venne a prelevarmi in baracca e mi scortò al comando dove il Lagerfuehrer, l’interprete napoletano e due civili mi aspettavano. Si trattava di questo: ricorreva l’indomani la festa di Sant’Uberto e, come da secoli, i cacciatori dei villaggi di fondovalle non volevano perdere questa tradizione. Solo che non c’erano più uomini validi per la battuta.
… Insomma ero disposto per un giorno a stare agli ordini dei vecchi cacciatori? E a dare la mia parola che non avrei tentato la fuga? E mi sarei reso garante anche per i due compagni che avrei liberamente scelto? …
Quella notte non dormii, come fosse la vigilia di una prima importante; e poi il pensiero di un giorno in montagna per una battuta al cervo, anche se ovviamente non potevo avere con me un fucile, mi dava eccitazione e fantasie malgrado una grande malinconia opprimesse l’anima.
Quando, nel cuore della notte, una guardia venne a prelevarci noi eravamo già pronti … ci consegnarono la nostra razione: due etti di pane nero e 15 grammi di margarina. Ci aprirono il cancello del Lager, e uscimmo senza scorta e con un profondo sospiro, con il cuore leggero e nuovo.

L’armento stava ruminando in una radura riparata; il passo del vecchio (cacciatore) li mosse e li sentimmo andar via nel bosco. Ci spostammo … come ci aveva insegnato. Io tenevo gli occhi fissi al margine della vegetazione e quando vidi sbucare una femmina e dopo un’altra seguita dal cerbiatto, e dietro i cespugli di pino montano le corna ramificate di un maschio, mi feci notare muovendo molto lentamente le braccia e camminando verso di loro, sicché tornarono dentro e Vincenzo e Bartolomeo li fecero scendere verso il vecchio. … Finalmente udimmo un colpo di fucile e poco dopo il suono del corno.

Arrivammo dove gli altri ci aspettavano. Il vecchio maschio era già stato pulito dalle interiora e dal rumine: ora giaceva adagiato su un fianco, con il collo portato all’indietro a fare bella mostra dei palchi meravigliosi; tra i denti gli era stato messo un ramoscello d’abete e nel ventre pianticelle di mirtillo con le bacche … Ci sedemmo tutti attorno al cervo a consumare la colazione. Quello che aveva sparato passò dall’uno all’altro a versare la grappa di pere e ognuno beveva dicendo la parola di augurio a lui e al cervo. Infine uno di loro si alzò dal gruppo, si allontanò di qualche passo e verso il cervo prima e poi ai quattro punti cardinali suonò con il corno di ottone un malinconico motivo.

Una domenica di novembre ci fu la sorpresa, un’incredibile sorpresa, se pensiamo a quei tempi: dopo il solito mestolo di rape e patate bollite nell’acqua avemmo tutti un pezzo di carne con un sugo denso e squisito e una fetta di pane nero.  Era il cervo, tutto, che i vecchi cacciatori avevano voluto donare ai prigionieri: a loro era bastato il trofeo.


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Uno degli ingredienti essenziali della passione venatoria ritengo sia l’empatia, cioè la capacità fortemente intuitiva di sentire quello che può sentire un altro essere vivente. In questo caso parliamo di un animale selvatico. L’empatia aiuta non solo a condurre con maggiore efficacia il duello con la selvaggina, ma anche e soprattutto a impararne il rispetto. Sono convinto che molti cacciatori sanno entrare in empatia con le loro prede, ma quando il cacciatore ha il talento narrativo di Hemingway, sa anche raccontarcelo con rara capacità di coinvolgimento. Nel racconto i due uomini che dialogano sono il turista cacciatore Francis Macomber e il professionista Robert Wilson, assoldato come guida di caccia grossa.

Da “La breve vita
felice di Francis Macomber”, di Ernest Hemingway
Allora Macomber vide il leone. Era quasi di profilo, con la grossa testa alta e voltata nella loro direzione … sembrava enorme, così stagliato sulla parte più alta della riva nella grigia luce mattutina …
“A che distanza è?” chiese Macomber, alzando il fucile.
“Settanta metri circa. Scenda e vada a prenderlo.”
“Non potrei sparargli da qui?”
“Non si spara ai leoni dalle macchine” si sentì mormorare, all’orecchio, da Wilson. “Scenda. Non rimarrà là tutto il giorno.”

Il leone era sempre fermo e guardava maestosamente e con freddezza quest’oggetto che ai suoi occhi doveva sembrare soltanto una sagoma, grossa come il più grosso dei rinoceronti. Sopravvento, non sentiva l’odore dell’uomo, e guardava l’oggetto muovendo un po’ il testone di qua e di là. Poi … senza paura, ma esitando ad andare a bere con quella cosa là davanti a lui, vide che se ne staccava la figura di un uomo e voltò la testa pesante e fece per andare a correre al riparo degli alberi quando udì uno schianto repentino e sentì l’urto di una palla piena calibro 30.06 da 220 grani che gli squarciò il fianco e gli riempì lo stomaco di una nausea improvvisa e cocente. Sentendosi pesante e impacciato, con la pancia piena e la testa che girava per la ferita, trotterellò tra gli alberi verso l’erba alta, dove avrebbe potuto rifugiarsi, quando udì un secondo schianto, e qualcosa sibilò sopra di lui squarciando l’aria. Poi lo schianto tornò a farsi sentire e lui incassò il colpo, che gli bucò le costole inferiori e gli affondò nel corpo, e allora galoppò, col sangue caldo che improvvisamente gli schiumava dalla bocca, verso l’erba alta dove avrebbe potuto rendersi invisibile e costringerli a portare quell’oggetto che faceva gli schianti tanto vicino da poter spiccare un balzo e atterrare l’uomo che lo imbracciava.

“Che si fa?” chiese Macomber.
“Non abbiamo molta scelta” disse Wilson “non possiamo portare qui la macchina … aspetteremo che s’irrigidisca e poi andremo a cercarlo, io e lei.”
“Non possiamo dar fuoco all’erba?” chiese Macomber.
“Troppo verde.”
“Non possiamo mandare i battitori?”
Wilson gli rivolse un’occhiata indagatrice. “Certo che possiamo” disse. “Ma sarebbe un po’ da criminali. Vede, noi sappiamo che il leone è ferito. Fosse sano, si potrebbe fare la battuta: quando sente rumore, scappa via. Ma un leone ferito attacca. Non lo vedi finché non gli sei addosso …”
“E i portatori di fucile?”
“Oh, quelli vengono con noi. E’ il loro shauri. Vede, hanno preso un impegno. Ma non sembrano troppo contenti, eh?”
“Non voglio andare là dentro” disse Macomber. …
“Nemmeno io” disse Wilson molto allegramente. “Ma non c’è altra scelta, davvero.”

“Perché non lo lasciamo là?”
Robert Wilson, che fino a quel momento si era preoccupato esclusivamente del leone … e che non aveva pensato a Macomber se non per notare che era piuttosto impaurito, ebbe a un tratto l’impressione di aver aperto la porta sbagliata in un albergo e di aver visto una cosa vergognosa.
“Come sarebbe a dire?”
“Perché non lo lasciamo perdere?”
“Intende dire, fingere che il leone non è stato colpito?”
“No. Soltanto farla finita.”
“Non è finita.”
“Perché no?”
“In primo luogo, è certo che l’animale sta soffrendo. Secondariamente, potrebbe trovarselo davanti qualcun altro.”
“Capisco.”
“Ma lei non è tenuto a occuparsene.”
“Mi piacerebbe” disse Macomber “Ho solo fifa, sa.”

Questa era la storia del leone. Macomber non sapeva come si fosse sentito il leone prima di attaccarli, né durante l’attacco, quando la sberla incredibile del 505, con una velocità iniziale di due tonnellate, lo aveva colpito alla bocca, né cosa lo spingesse ad avanzare dopo il colpo, quando il secondo scoppio lacerante gli aveva fiaccato i quarti posteriori e lui aveva continuato a strisciare verso l’oggetto assordante e sterminatore che lo aveva distrutto.


3
Tutti sbagliamo. Ma quando è un cacciatore a sbagliare, se è sostenuto da adeguato rigore morale e se la sua sensibilità non gli dà tregua, sa con chi deve prendersela. Di nuovo Hemingway ci racconta con aspre pennellate il suo stato d’animo per un colpo sbagliato nella caccia alle grosse antilopi nere africane.

Da “Verdi colline d’Africa”, di Ernest Hemingway
Finché apparve il maschio. Anche nell’ombra era d’un nero intenso, che splendette non appena colpì nel sole, colle sue corna che si slanciavano alte, quindi all’indietro, enormi e scure, fino a finirgli quasi in mezzo alla schiena. Quello era certamente un maschio. Dio, che maschio. … Tirai e lo vidi cadere e rialzarsi mentre gli altri animali si sparpagliavano per poi raggrupparsi di nuovo. Lo sbagliai. Lo vidi andarsene quasi dritto su per la valle nell’erba alta, lo colpii di nuovo, lo perdetti di vista. … Il maschio non si mostrò più … Ma ero troppo eccitato nel tirare e non mi sentivo affatto fiero di quei colpi. Mi ero innervosito e avevo tirato all’animale, non nel punto giusto dell’animale, mi sentivo un po’ vergognoso

“Doumi! doumi!” urlava il vecchio con voce acutissima.
“Dove?” gridai precipitandomi verso di lui traverso il costone.
“Là, là!” gridava, indicando la boscaglia verso l’estremità della valle. “Là, là. Eccolo là!”
Ci lanciammo a corsa pazza, ma era già scomparso tra gli alberi sulla costa del monte. Il vecchio ci disse che era enorme, nero, che aveva grandi corna e gli era passato a pochi metri, ferito in due parti, all’addome e nelle natiche. Sembrava ferito gravemente ma andava svelto.

A un certo punto giungemmo in un luogo dove il maschio si era riposato, c’era una piccola pozza di sangue su di una pietra sulla quale si era fermato, dietro certi cespugli, e maledii il vento che portava avanti il nostro odore … non ce l’avremmo più fatta a sorprenderlo …

Mi raddrizzai e andai a mettermi all’ombra di un grande albero. L’ombra era fresca come l’acqua e la brezza mi rinfrescò la pelle sotto la camicia bagnata. Pensavo al maschio, desiderando intensamente di non averlo mai colpito. Invece l’avevo ferito e perduto. … Sarebbe morto la notte e le iene l’avrebbero divorato o peggio l’avrebbero azzannato prima che morisse, spezzandogli i tendini e strappandogli, ancora vivo, i visceri. … averlo colpito senza ucciderlo era stata una gran mascalzonata. Non m’importava uccidere un animale, qualunque fosse, purché lo uccidessi di netto, tanto dovevano morire lo stesso e la mia interferenza nelle uccisioni notturne e stagionali che avvenivano senza tregua era minima, non mi lasciava nessun senso di colpa. … Ma mi sentivo nauseato in fondo all’anima per questa antilope maschio; e per di più la desideravo, la desideravo con tutta l’anima, più di quanto non volessi ammettere. … La migliore occasione, l’unica occasione che un vero cacciatore dovrebbe mai chiedere si era presentata quando avevo tirato … : era tutta colpa mia, ero stato un figlio di puttana a tirargli all’addome. Tutto questo veniva dalla mia presunzione di saper fare benissimo una certa cosa, e poi trascurare uno dei punti essenziali del modo di farla.


4
Come dicevo in apertura, l’ambiente è sempre presente. Ma in questo brano di Mario Rigoni Stern incontriamo un ambiente un po’ diverso dai luoghi della caccia al cervo nei monti austriaci dei tempi della guerra, o dalle savane africane rievocate da Hemingway. Il malinconico ricordo di un vecchio cacciatore ci avvicina ai luoghi del nostro quotidiano e ritengo che sia un ottimo spunto per provare a capire come cacciatori e ambientalisti possono ritrovarsi sullo stesso fronte, se lo vogliono. E, nel contempo, a nessuno sfuggirà quanta passione e quanto rigore morale sono presenti nelle parole di questo racconto.

Dal racconto “Nell’attesa, ascoltando il bosco”, di Mario Rigoni Stern
Ormai lo consideravano un vecchio da ospizio; ma lui si sentiva ancora in gamba, e si offese quando un pomeriggio si vide venire in casa il segretario della sezione cacciatori con la tessera omaggio per la riserva comunale … il Consiglio aveva deliberato così perché era il socio più anziano: insomma per i suoi ottant’anni lo consideravano estromesso dall’attività venatoria, tanto che potevano dargli il tesserino di socio onorario. Proprio come alle autorità politiche che qualche volta per quell’inutile cartoncino con nomi e titoli venivano a passeggiare per i boschi e a far prendere aria ai fucili, e che persino non si accorgevano dei falsi selvatici, fagiani o starne di voliera, che i guardiacaccia gli facevano svolazzare davanti al naso.
Se avesse avuto il vecchio Marte gliel’avrebbe fatta vedere lui, a certi giovanotti come si deve fare la caccia! Ma anche la moglie ora si era messa, e la figlia: l’anno scorso, quando venne la prima neve, gli avevano nascosto le cartucce perché temevano che gli pigliasse il freddo ai bronchi, e quest’anno non volevano che rinnovasse la licenza. Ci mancherebbe altro! Morire, piuttosto. E ora gli avevano portato in casa il tesserino gratis perché era il più vecchio cacciatore di montagna: se avesse avuto l’Alba seconda!
Solo che ora, in apertura, non c’erano più quaglie come una volta perché i terreni zappativi e i seminativi a terrazza sulle pendici erano stati tramutati in pascoli, o invasi da cespugli di spine e i prati vengono falciati a macchina così i pulcini appena nati vengono decapitati dalle falciatrici, e anche molte quaglie adulte fanno questa fine: quelle che sono sul nido a covare, tutte! Così per mangiare una volta il risotto bisogna aspettare quelle di passo, ma nei posti buoni hanno costruito le ville …”

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