(RILFESSIONI SULL’ESSERE, 1 – 26 settembre 2017) La più nota e, con l’Ave Maria, la più amata delle preghiere cristiane pone interrogativi a chi prova ad avvicinarla cercando oltre il dogma il messaggio spirituale. Poi, dopo una riflessione notturna, mi è arrivata un’intuizione convincente. Ora, recitare il Padre Nostro è un rito più sereno e fiducioso.
Da quando ho ripreso a frequentare le funzioni religiose della domenica, sia pure in maniera irregolare, il Padre Nostro è l’unica orazione che mi sento di recitare a voce alta senza sentirmi ipocrita (a dire il vero anche l’Ave Maria, ma con meno trasporto). Eppure, più di una volta mi sono interrogato sul significato di quelle parole, chiedendomi in coscienza se davvero provassi le emozioni che l’orazione descrive. Perché di emozioni si tratta: quelle di chi si prostra davanti al potente prima con parole di lode e augurali, poi con una serie di richieste.
Con quale stato d’animo mi inchino davanti al Signore nel pronunciarle?
Vediamo.
Padre nostro, che sei nei cieli …
L’immagine è bella e poetica. Però, lui lì e noi qui. Ma Iddio è una entità infinita, che per antonomasia è ovunque, anche “qui”, quindi, non solo “lì”. Mi dico che comunque può andare, la separazione è simbolica, l’immagine è allegorica, andiamo avanti.
Sia santificato il tuo nome …
Cosa vuol dire “santificare”? Se dovessi dare una definizione ontologica del verbo “santificare” mi verrebbe da definirlo come “affermazione di perfezione spirituale”. Un qualcosa è “santo” se è spiritualmente perfetto, cioè privo di impurità. E quindi come minimo degno del massimo rispetto, e se si parla del nome di Dio, la cosa implica un utilizzo attento, non superficiale. Quindi è giusto che l’essenza spirituale suprema debba essere trattata con il massimo rispetto. Quando in passato non l’ho fatto, non l’avevo capito, e oggi ne sono dispiaciuto.
Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra …
Questi tre passaggi mi hanno creato qualche difficoltà di accettazione. Di nuovo la separazione tra cielo e terra, tra “qui” e “lì”. Intanto ho avvertito come un senso di piaggeria, come il suddito ai piedi del potente che si spertica in elogi e auguri perché non solo quello è potente, ma lui, il suddito, ha una lunga lista di richieste da fare. Non voglio dire che è così, ma solo che quelle invocazioni mi hanno fatto sentire un po’ così. Non vorrei essere frainteso, non sto generalizzando, sto parlando del mio stato emotivo nel momento in cui pronuncio quelle parole. Anche perché, se io mi auguro che venga il suo regno, vuol dire che il suo regno ancora non c’è, e com’è possibile se Iddio è ovunque? Come può esserci anche laddove non c’è il suo regno? Lo stesso per la sua volontà. Se l’augurio è che venga realizzata, vuol dire che ancora non lo è. E come è possibile se Iddio è onnipotente? È onnipotente, eppure ci sono angoli del suo Essere che non controlla? Lo so che qui torniamo sul tema trito e ritrito del perché esiste il male nel mondo se Dio è buono e onnipotente. L’uomo si interroga su questo tema cruciale da quando ha cominciato a fare uno più uno. Dico solo che quelle parole, nel pronunciarle (soprattutto a voce alta) ogni volta mi hanno risbattuto in faccia tutti i dubbi. Miei e non solo miei. E con la testa piena di punti interrogativi sono andato avanti.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano …
E qui cominciamo con le richieste. La prima fa tenerezza, in fondo chiediamo solo quello che ci occorre per sopravvivere, il nutrimento. È vero che dobbiamo guadagnarcelo, però il cibo rimane una elargizione di Dio. Se io lavoro per guadagnarmi il pane, poi lo chiedo anche a Dio, suona un po’ come chiedergli di non metterci i bastoni tra le ruote. Ma questa è una chiave di lettura pessimista e un po’ dissacrante. In realtà nell’Essere la vita si nutre di vita e, da questo punto di vista, la richiesta mi sembra più che legittima.
Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori …
Qui, nulla da eccepire. Ovviamente i “debiti” non sono gli impegni in denaro, ma le offese, i “peccati”. Perché l’unico “debito”, inteso in senso economico, che mi viene in mente con l’Essere è quello che noi, come esseri umani, stiamo contraendo con il pianeta che ci ospita, lo stiamo spolpando, ogni anno già a giugno abbiamo consumato quello che la Terra può darci e tutto quello che prendiamo nei mesi successivi è un debito che non so quando e come potremo restituire, temo presto e in modo doloroso. Se fosse questo il debito di cui chiediamo la remissione, sarebbe come se volessimo che Dio ci donasse una seconda Terra nuova di zecca! In realtà nell’orazione chiediamo a Dio il perdono nei nostri peccati nei suoi confronti e, per parte nostra, ci impegniamo a perdonare chi ci ha arrecato quale offesa. In altre parole dichiariamo a Dio di essere pronti a fare nostro l’insegnamento cristiano del porgere l’altra guancia. E già qui c’è materia per una subitanea confessione.
E non ci indurre in tentazione …
Su questo passo, invece, rimango interdetto. Ma come? Tu, Dio, con tutto il tuo potere, mi hai davanti, sai come sono debole, e ti diverti a tentarmi? A farmi gli sgambetti? Per fini educativi, o per cosa? Non è che sei un po’ sadico e, forse, poi non così buono come mi ero illuso?
Ma liberaci dal male.
E con questa richiesta finale chiudiamo il cerchio. È giusto chiedere al Padre onnipotente di risparmiarci le sofferenze, per carità. Intanto bisogna capire se “male” e “sofferenza” sono in qualche modo sinonimi. Non lo sono, ma tra i due c’è un forte legame. Il male genera sofferenza e la sofferenza può generare altro male. Quindi a Dio chiediamo di liberarci dalla fonte primaria della sofferenza, il male in senso assoluto. E qui torniamo agli interrogativi di prima: come può un Essere infinito, onnipotente, onnisciente e buono consentire il male? Il regno del male è forse un mondo dove c’è un limite alla dimensione infinita di Dio? È un’affermazione impossibile: non esiste nulla che possa esistere al di fuori di una realtà infinita, proprio perché questa ricomprende ogni cosa. Il non-essere non esiste. Quindi, se esiste il male, è parte dell’Essere. E questo pone limiti alla sua bontà e dubbi sulla sua onniscienza e onnipotenza.
Poi mi sono ricordato che questa preghiera non è stata scritta da qualche sacerdote o da qualche Papa, ma è nel Vangelo, viene da una sacra scrittura, è Gesù che disse: “Pregherete il Padre mio con queste parole” (o qualcosa di simile, perché vado a memoria). E mi sono tornate in mente le parole del sacerdote di Monteortona (PD), che ho citato nella prima di queste riflessioni sull’Essere, quella della parabola del Seminatore: “i testi sacri non sono la parola di Dio, ma contengono la parola di Dio”. Infine, Gesù conclude il passo del Vangelo con la parabola del seminatore dicendo: “Chi ha orecchi, intenda!”.
E così ho pensato all’idea accennata alla fine del saggio l’Essere, quella che vedrebbe ciascuno di noi esseri umani consapevoli come un “quanto” di consapevolezza universale, cioè una parte strutturale della mente di Dio.
Se da una parte la mente di Dio si struttura, cioè esiste in forma sostanziale, su un’infinità di unità indivisibili (cioè “quanti”) ciascuno dei quali dotato di una sua propria consapevolezza, dall’altra ciascuno di noi, proprio perché è consapevole, cioè sa usare la testa (magari non proprio tutti, ma questa è un’altra storia), è libero di pensarla come crede. È questo il senso del libero arbitrio: non il paradossale destino conseguente a un peccato originale, o il divertimento di un Dio sadico che ci ha regalato dolore e infelicità con la conoscenza, mentre avrebbe potuto tenerci felici e ignoranti. In realtà Dio vive in ciascuno di noi, e la nostra libertà di usare la testa è una conseguenza inevitabile della consapevolezza. Se siamo strutturati per dire “io sono”, nessuno potrà impedirci di aggiungere “e la penso così”. È dentro ciascuno di noi che deve venire il regno dei cieli (in questo caso concetto allegorico: non c’è una regione terrestre separata dal regno di Dio, ma ciascuno di noi è in grado di porre degli argini al suo volere). Sta a noi capirlo e decidere cosa è meglio.
Lungi dall’aver esaurito le riflessioni sulla preghiera “Padre Nostro”, sento che più la reciterò, più avrò la possibilità che la parola di Dio mi arrivi finalmente chiara e, spero, forte.
2 ottobre 2017:
(M. Cristina Ferri): Secondo una interpretazione che si rifa alla Preghiera del Cuore, il Padre Nostro pare essere un insieme di mantra che non andrebbero interpretati letteralmente. Per es “i cieli” non sarebbero l’aria sopra la terra, ma una metafora della parte migliore e più sublime di noi: quella spirituale. “Come in cielo così in terra”: non è una separazione, ma il contrario. Le dimensioni del cosmo sono unite dalla Sua presenza. Significa proprio che è tutto collegato. Qualcuno in un lontano passato diceva “Come sopra, così sotto”, paragone fatto per analogia … non da ragionamento deduttivo. Nella tua interpretazione ci vedo un pò di polemica. La preghiera come dici contiene la parola … allora prova questo, come è stato insegnato a me da un prete cattolico: scegli solo uno dei brevi passi: due, tre lettere al massimo. Es “liberaci dal male …” o quello che senti più tuo e ripetilo a lungo … S.Francesco o Madre Teresa … o altri ne avevano uno, (importante: non inventato, ma preso da preghiere o salmi, tipo: “Cristo misericordia … o Miserere sum Domine …” e via dicendo) e fallo tuo nei momenti più disparati per tutta la vita. La preghiera breve e ripetuta agisce sul cuore e non sulla mente. Non è da intellettualizzare. Come non lo è il Padre Nostro, che cantato in Aramaico, con i “mantra” ripetuti, è stupendo.