“… e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori …”
Riflessioni sull’Essere. La liturgia della parola di domenica 13 settembre 2020 ha affrontato il tema del perdono. Dapprima il libro del Siràcide: “Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro” (30), con l’invito a perdonare le offese del prossimo (“smetti di odiare … dimentica gli errori altrui” – 28.6 e 7) per essere a nostra volta perdonati.
Poi la riflessione di San Paolo nella lettera ai Romani (7): “Nessuno di noi vive per se stesso”.
Infine, il Vangelo (Matteo 18, 21-35): quante volte dovrò perdonare il fratello che commette colpe contro di me, chiede Pietro a Gesù. Sette volte? Un gran numero, cioè un forte impegno, perché, come ha spiegato il sacerdote nell’omelia, gli ebrei – diciamo – “giusti” dovevano ogni giorno esercitare il perdono almeno tre volte. Quindi Pietro già mostrava, come uomo, un grande impegno. Gesù risponde con una iperbole: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (22). In altre parole, non c’è limite al perdono, che deve essere sincero, autentico, incondizionato.
Segue la parabola del servo che chiede pazienza al padrone per i suoi consistenti debiti, ma non ne ha alcuna per chi ne ha verso di lui, per quanto modesti questi siano. Verrà ovviamente punito, ma la chiave di lettura non è la punizione, non bisogna temere l’intervento esterno di un giudice severo e inflessibile. Gesù dice, alla fine della parabola: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonere di cuore, ciascuno al proprio fratello” (35), frase che non deve essere letta come una minaccia, ma – anche questa – in chiave allegorica. La punizione non è altro che il malessere che ciascuno di noi vive se non riesce a perdonare. Un malessere alimentato dal rancore e dall’ira. Cose orribili, appunto, che ci portiamo dentro e delle quali non è facile liberarci. Ecco il senso profondo del passo del Padre Nostro citato in apertura.