QUANTE STORIE – LABORATORIO DI SCRITTURA NARRATIVA 2013-14. Edizione NeàTrofè 2014. Docenza, tutoraggio, editing e impaginazione.
Tra il novembre 2013 e il gennaio 2014 si è tenuto a Forlì, presso la CNA Formazione, il Laboratorio di Scrittura Narrativa che ha coinvolto 12 allievi, otto dei quali hanno portato a compimento il loro racconto originale, pubblicato nella raccolta uscita con il marchio NeàTrofè.
In coda ho inserito due miei racconti, RISVEGLIO, pubblicato nel 2008 sulla rivista Thauma, e PROCESSO 8NON PROPRIO GENUINO) AL CLANDESTINO, pubblicato nel 2014 sul bimestrale Barricate. Eccoli.
Risveglio
Pensare è fatica. Avverto le idee formarsi con lentezza nella mia mente. Costrutti elaborati si compongono gradualmente e, improvvisamente, diventano concetti comprensibili. Pensare impegna tutto me stesso. Quando penso, quasi non avverto nulla intorno a me, come se il mio esistere fosse solo nei miei pensieri. Ma forse è così. Devo ammettere che so ben poco di me.
Chi sono?
Ho cominciato a elaborare pensieri da qualche tempo, non saprei da quanto, non sono in grado di misurarlo.
Dove mi trovo?
Certo, le lancette dell orologio che vedo sospeso sopra la porta nella parete di fronte mi aiutano in qualche modo, ma ripetono instancabili lo stesso movimento e non so quanti giri hanno fatto da quando le ho notate, non ho tenuto il conto.
Perché sono qui?
Il solo formulare questi tre quesiti mi è costato una fatica enorme.
Prima che cominciassi a pormi qualche domanda, tutt’ora senza risposta, c’era la luce, a volte il buio, e c’era il silenzio. Anzi, non è esatto dire c’era, perché quello c’è ancora, io vivo immerso nel silenzio.
A un certo punto ho cominciato a scorgere qualcosa nella luce. Forme. Alcune immobili, altre in movimento. Forme che apparivano, si spostavano, a tratti si fermavano per poi spostarsi nuovamente, e poi scomparivano. Riconobbi prima le forme immobili. Riuscii a distinguerle tra loro, ma la cosa più entusiasmante, la sorpresa più bella, fu che capii che cosa erano, le riconobbi.
Fu un momento di eccitazione straordinaria. Non solo perché feci la scoperta di poter formulare pensieri, ma anche perché realizzai di possedere tantissime informazioni depositate nella mia memoria, informazioni che potevano essere recuperate e utilizzate per pensare, sia pure con grande fatica. Infatti, alla gioia seguì la spossatezza e poi il sonno.
Al risveglio ho ritrovato al loro posto le forme fisse e le ho riconosciute immediatamente. Della porta e dell’orologio nella parete di fronte ho già parlato. Nella stanza c’è anche un mobiletto bianco lungo la parete alla mia destra, e un letto alla mia sinistra, sul quale giace un uomo, immobile come il resto degli arredi. Ci sono anche un paio di sedie, un secondo mobiletto identico al primo, addossato alla parete davanti a me e seminascosto da letto. Sempre sulla stessa parete è appeso un crocifisso, non lontano dall’orologio. Le forme mobili che frequentano la stanza sono esseri umani, uomini e donne, alcuni vestiti con abiti bianchi, altri con tute verdi, altri ancora con abiti di fogge diverse e svariati colori.
Con uno sforzo supremo, aiutato dalle nozioni della mia memoria, ho realizzato di essere in una stanza d’ospedale, dove ogni giorno c’è l’andirivieni di medici, infermieri e visitatori. Quell’uomo immobile disteso sul letto è un paziente. Di certo lo è. Quando entrano nella stanza, medici e infermieri gli si avvicinano, a volte si piegano per scrutargli il volto da vicino, quasi sempre esaminano le cartelle cliniche appese alla spalliera del letto.
Poi vengono da me, armeggiano in basso, dove non riesco a vedere, mi guardano in faccia, a volte mi sorridono.
Ho capito.
Anche io sono come quell’uomo disteso immobile nel letto.
Anche io sono un uomo, uomo e non donna, perché negli ospedali i sessi hanno settori separati. E sono ricoverato in un reparto per degenti in coma.
Solo che io, quando me ne resi conto provai un emozione fortissima, io mi sto svegliando dal coma!
Ho provato a rispondere allo sguardo dell’infermiera che si era soffermata a scrutare il mio volto e mi aveva regalato un sorriso intriso di tenerezza.
Ho provato a emettere un suono.
Ho provato a muovermi.
Nulla.
Il mio corpo non risponde. La mia mente si è risvegliata, ma non ha il controllo del corpo. Vivo un risveglio che non riesco a comunicare.
Eppure, con il passare del tempo, ho imparato a distinguere le persone che vengono a visitarci.
La più assidua è Kate (il nome è sul tesserino che si affaccia malizioso sul rigonfiamento del seno), un’infermiera carina e minuta, sempre sorridente, con lo sguardo dolce incorniciato dai capelli biondi. E una gioia vederla entrare, avvicinarsi all’uomo inchiodato nel suo letto, trafficargli intorno, poi venire da me, guardarmi negli occhi, chissà come sono i miei occhi, Hei, hei! Kate! Guardami, sono sveglio, mi capisci?
Kate armeggia non so dove, mi sorride, mi ignora.
Se ne va.
E’ più o meno così tutte le volte.
Un altro frequentatore della stanza è un uomo alto, dai modi autorevoli, dev’essere un medico, arriva, dà un occhiata di qua, un altra di là, impartisce ordini e se ne va anche lui.
Ma dove se ne vanno tutti quanti? Possibile che il mio sguardo non dia segnali di, non dico intelligenza, non pretendo troppo, ma almeno di risveglio? Possibile che non lo noti nessuno?
Potrei muovere gli occhi.
Se guardo prima a destra, verso il muro bianco con il mobiletto a parete, e poi a sinistra, verso il letto del mio compagno di stanza, gli occhi si devono muovere, per forza. Se sposto il campo visivo, sposto gli occhi, lapalissiano! Decido che al primo che entra mi metto a spostare continuativamente lo sguardo da destra a sinistra.
Quando l’orologio segna mezzogiorno entra una signora di una certa età, robusta anche troppo e vestita con abiti sgargianti; si toglie una lunga sciarpa nera, la butta senza complimenti sul letto del mio vicino, gli si siede accanto e comincia a parlare. Lo so perché muove continuamente le labbra e lo guarda come se lui ascoltasse. Secondo me quello non sente nulla, come me del resto. Anzi, peggio di me, perché quegli occhi vitrei e quello sguardo fisso mi fanno pensare (che fatica, pensare!) che quel tizio non vede proprio un bel nulla. A giudicare dalla persona che gli sta vicino, direi che non si perde niente.
Ma adesso ho sonno, Kate, dove sei?
Che strana esperienza il sonno. Forse è difficile definirla esperienza, perché quello che esperisco del sonno è il suo arrivo, e il mondo visivo scompare con la luce, e poi quando il sonno se ne va, perché mi sveglio e torna la luce.
In mezzo c’è il nulla.
Forse sogno, ma non ne ho alcuna traccia.
O forse non sogno proprio. Può essere una condizione di chi è in coma, i sogni non esistono, e io, se ho ben capito, sono a metà strada tra il coma e … che cosa?
La vita, la mia vita di essere umano, che si alza, si veste, cammina e esce da questa stanza, esce nel mondo. Chissà com’è quella vita, che mi dev’essere appartenuta. In un’altra vita.
Intanto, in questa stanza non c’è nessuno, oltre a noi due, il mio silenzioso e immobile compagno di coma e io, a mia volta silenzioso e immobile. Solo che dentro a questo involucro c’è una mente sveglia, viva, che ha voglia di strillare al mondo la propria esistenza e non ci riesce.
Sono vivo e frustrato!
Mi guardo intorno, nulla sembra essere cambiato nella stanza, solo le lancette dell orologio mutano continuamente la loro posizione. Adesso se ne stanno tutte e due buttate a destra, quasi sovrapposte, come se si abbracciassero, con un po’ di impegno potrei riuscire a leggere l’ora, e collegare le diverse posizioni delle lancette con la luminosità della stanza, così da capire se è giorno, come dovrebbe essere ora, o sera, o addirittura notte, quando la luce viene solo dal corridoio e da altri puntini colorati posti qua e là.
Ma a cosa può servire tutto ciò? A contare i giorni? Il tempo che passa? A interrogarmi senza potere dare risposte sul significato di … Hei, è entrata Kate!
Kate, Kate, sono qui guardami!
Invece di fissare intensamente l’infermiera, comincio a gettare freneticamente lo sguardo a destra e a sinistra, facendolo rimbalzare da una parete all’altra, noterà, appena mi viene a guardare, il movimento degli occhi!
Il ping pong visivo mi sta facendo venire la nausea, ma con la coda degli occhi vedo Kate che finisce di accudire il mio compagno di stanza e si dirige verso di me. Mi sento eccitato.
Dài, dài, Kate, guardami, sono sveglio, mi sto svegliando, presto, chiama i medici, mettetevi in contatto con me … vi prego … non sono del tutto in coma … vi prego …
Kate si avvicina, mi guarda in faccia, è vicinissima, sorride, esaspero la corsa degli sguardi di là e di qua, il suo dolce volto mi scivola davanti come se corresse, è bellissima anche così. Poi interrompo la danza degli sguardi e mi fermo a fissarla negli occhi, Kate, hai capito? Io, mi sto svegliando …
La ragazza rimane imperturbabile. Poi perde il sorriso. Noto un lampo di preoccupazione negli occhi.
Kate, cosa c’è? Cosa vedi?
Si alza di scatto e corre fuori dalla stanza.
Sono sconfortato. Io guardavo a destra e a sinistra, lo so, ne sono certo, ma evidentemente non muovevo gli occhi. Kate mi ha guardato come se fossi inchiodato nell’assoluta immobilità come quell’altro. Comincio a odiarlo. Anche perché da lui qualcuno arriva a portargli un saluto, da me solo medici e infermieri, possibile che io non abbia nessuno al mondo?
Forse non sanno chi sono. Forse i miei parenti, gli amici, mia moglie, certamente ho una moglie da qualche parte, e magari anche dei figli, forse tutti loro mi credono disperso, oppure morto, magari mi hanno già fatto il funerale!
E invece io sono qui! Ehi! Io sono qui!!!
Le lancette dell’orologio tornano a separarsi, quella più lunga riprende il distacco, se mi impegno capisco anche che ore sono, uno, due, tre, quattro, cinque no, la lancetta piccola non è ancora sul cinque, quell’altra ha da tempo superato il sei, le quattro e mezza! Del pomeriggio, a giudicare dalla luce, che è quella del sole. Ah, il sole, la stella che illumina e dà la vita al nostro pianeta, Vedi, Kate? (è appena tornata nella stanza accompagnata dal medico e dalla signora dagli abiti sgargianti, che ha una maschera d’angoscia disegnata sul volto) Ti sembra che un uomo in coma possa ragionare sul sole e sulla vita? Quanto ci vorrà prima che vi rendiate conto che sono vivo, che sto uscendo dal coma?
Ma che cosa stanno combinando? Sono tutti intorno al mio compagno di coma, Ehi, quello è ancora out, sono io a uscire … In un attimo si drizzano tutti e tre in piedi. Si guardano fra loro sgomenti. Il medico corre da me, mi guarda in faccia, ha uno sguardo cupo.
Beh? Cosa c è che non va? Sono così orribile? Sto male? Io non mi sento male, io …
Viene anche Kate. Mi guarda con commiserazione. Poi guarda il medico. Che scuote la testa. Ragazzi, non scherzate, cosa mi sta succedendo?
Si alzano. Tornano accanto all’altro paziente. La signora dai vestiti sgargianti è seduta accanto al letto, si è quasi buttata sul corpo dell’uomo e piange. Kate le si avvicina e le passa con dolcezza una mano sulle spalle. Il medico scrive qualcosa su un foglio alla base del letto.
Se erano preoccupati per me, quello deve stare ancora peggio. Giornataccia, per i degenti di questa stanza. E comunque mi sento stanco. Sento il desiderio di abbandonarmi al sonno
No! E se fosse la morte?
Mi prendono le palpitazioni, oddio, anche io sto male, solo che non lo sento, questa non è la normale stanchezza, è la morte che arriva, no, oh no! Proprio adesso, che mi stavo risvegliando e non ho potuto dirlo a nessuno. Mi viene da piangere, muoio, solo, e non lo sa nessuno.
Però ho sonno, sono stanco, in fondo il buio è dolce …
Torna la luce, tornano le forme, torna la mia stanza. Non sono morto. Avevo solo sonno, come le altre volte. Ho dormito, non ho sognato, e mi sono risvegliato, dopo quanto tempo? Non so, la stanza è sempre qui con le lancette che … hei!
Il letto è vuoto. Il mio compagno di stanza non c è più. Allora è morto. Lui è morto. Chissà perché ho provato una qualche soddisfazione a pensare così. So che non è bello, che è una cosa meschina, poveraccio. E allora? Chi mi può rimproverare? Tanto non riesco a comunicare con nessuno, nessuno saprà del mio pensiero, di cui un po’ mi vergogno, ma solo un pochino. Nessuno lo saprà, tranne Dio.
Ma Dio mi capirà. Mi perdonerà.
E stata solo la misera emozione di un essere debole e sfortunato. Insomma, sto uscendo dal coma e per giunta nessuno se ne accorge. Chissà che straordinario materiale sarei per la scienza, se solo lo sapessero!
Adesso sono solo nella stanza. Voglio proprio vedere come mi tratterà Kate. Se mi degnerà di qualche attenzione in più, ora che sono qui da solo. Vediamo tra quanto tempo arriva.
Fisso le lancette dell orologio e comincio a contare.
Un’ora.
Due ore.
Nessuno. Si sono dimenticati di me?
Basta. Mi è venuto ancora sonno.
Mi sveglio con un gran trambusto. Non di rumori, perché non li sento, ma di vibrazioni. E come se fossi scosso da continui tremolii. Apro gli occhi, è giorno, nella stanza ci sono due energumeni che stanno trascinando fuori i mobili, lo fanno senza complimenti, strusciandoli sul pavimento. Di Kate nessuna traccia.
Scomparso l’orologio, il crocifisso, il letto del mio vicino deceduto è stato appena portato nel corridoio, sono scomparsi anche i mobiletti, ora un bestione dall’aria truce si sta dirigendo verso di me, non mi guarda neppure, prende qualcosa alle mie spalle, la solleva, lo capisco perché mi si piazza davanti con tutto il suo torace alzando le braccia, mi sembra di avere le sue ascelle vicino alle orecchie, meno male che non sento gli odori, sai che puzza! Con una certa fatica l’uomo me lo appoggia davanti. E una tavola di legno, pesantina a giudicare dalla fatica che quel bestione ha fatto. La tiene in verticale davanti a me, dandomi le spalle e dicendo non so cosa al suo collega energumeno.
Poi si gira verso di me, sbuffa, mi guarda incazzato, appoggia la tavola di legno ai miei piedi, così che non la vedo più, e se ne va.
Viene l’altro con un rotolo di plastica da imballaggio, ne taglia una specie di lenzuolo, poi solleva l’asse di legno, la ruota, adesso riconosco cosa è, uno specchio, la gira per imballarla e nel farlo mi specchio.
Il mio volto!
Dov’è?
L’immagine riflessa è quella di un tavolo, un monitor, una tastiera …
Il monitor riflette lo specchio.
Lo specchio riflette il monitor.
Poi l’immagine scompare, il secondo energumeno è veloce nell’impacchettare con lo specchio anche la mia illusione.
Se ne va con il pacco sotto braccio.
Torna il primo energumeno. Ha la faccia sempre incazzata. Mi si avvicina.
Ehi, stai lontano da me!
Mi ignora, mi guarda beffardo. Lui … ha capito?
Mi sembra di cogliere un ghigno.
Allunga una mano.
Click!
Processo (non proprio genuino) al clandestino (*)
“In piedi. Entra la Corte.”
Il rumore sordo e disordinato del pubblico, degli imputati e degli avvocati che si alzavano accompagnò l’ingresso dei giudici nell’aula austera del tribunale, con i legni e le trabeazioni classicheggianti che si perdevano in alto, dove le capriate rimanevano avvolte nella semioscurità e da dove calava una specie di nebbia schiumosa che permeava ogni cosa con un sentore di stantio. La Corte prese posto sugli scranni più alti, sotto un grande simbolo della bilancia in equilibrio, il piatto di sinistra a reggere il logo del Copyright e quello di destra a sostenere una freccia di diagramma sparata al cielo che simboleggiava la vertiginosa crescita del PIL.
“Leggo le accuse” disse il giudice con tono severo “gli imputati rimangano in piedi.” Accompagnato dall’eco frusciante di chi è stato autorizzato a rimettersi a sedere, l’uomo di legge proseguì: “Siete accusati di aver contravvenuto alle norme che riguardano la trasformazione e il confezionamento dei prodotti alimentari, della mancata applicazione dei marchi di certificazione, nonché della loro irregolare commercializzazione. Tutto ciò fa di voi dei clandestini. Vi dichiarate colpevoli o innocenti?” Il giudice si tolse gli occhiali e guardò la fila di imputati in piedi alla sbarra.
Otto clandestini che lo fissavano per nulla intimoriti, anzi, orgogliosi delle pesanti accuse che erano appena state proferite. Il pane sembrava quasi sorridere, con il suo sguardo bonario; il vino ostentava soddisfatto il suo bel colore invitante, nella bottiglia priva di etichetta; l’unguento per la pelle mostrava un distacco olimpico, il sacco di farina perdeva sbuffi biancastri e sembrava solo chiedere di potersi finalmente sedere, l’uovo gestiva con dignità il suo precario equilibrio, il miele si era indurito in un freddo silenzio e la marmellata di peperoni piccanti fissava incazzata la parete alle spalle dei giudici. La irritava terribilmente la scritta sotto la bilancia: Servizio di giustizia certificato isonovemilaerotti. E poi, quasi fosse una firma, la sequenza dei più noti loghi delle multinazionali planetarie, quelli che non hanno bisogno di scritte per essere riconosciuti, tutti raggruppati sotto l’odiosa frasetta “Questo servizio è stato presentato da …”.
“Allora? Come vi dichiarate?” ringhiò il giudice dopo aver atteso ben cinque secondi.
“Colpevole!” affermarono con orgoglio tutti e otto in sequenza.
“No!” sembrò piagnucolare l’avvocato difensore, che scattò in piedi rivolto al giudice. “Vostro onore, non liquidi la cosa con questa semplice ammissione di colpevolezza. Ammettono la clandestinità, ma per orgoglio e per necessità. Prima di formulare un giudizio, cerchiamo di capire meglio.”
Il giudice si rivolse agli imputati: “Siete andati all’Asl a chiedere quello che potevate vendere e come andava fatto? Siete andati all’ente certificatore a chiedere se eravate ‘biologici’? Siete andati al consorzio di tutela a chiedere di mettere il bollino sul vostro vino? No! la vostra risposta è sempre no! E allora” girò lo sguardo sul difensore “cosa c’è da capire, avvocato? Hanno infranto la legge e si sono dichiarati colpevoli.”
“Non sono solo clandestini.”
“Ah, no? E cos’altro sono?”
“Sono genuini.”
“E’ un termine giuridicamente senza senso” lo rimbrottò il giudice “per essere prodotti, confezionati e commercializzati, i generi alimentari devono seguire le norme di legge, e se vogliono dichiararsi biologici, devono farsi certificare. Genuini o meno che siano.”
“Con il nostro gesto” disse perentorio il miele “vogliamo denunciare un insieme di norme ingiuste che equiparano i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari e ci rendono fuorilegge.”
“E poi” aggiunse la farina tra sbuffi biancastri “basta con il cosiddetto ‘biologico’, che può essere anche industria, può essere sfruttamento, alienazione, oppressione. Biologico può voler dire furbo arricchimento, logiche del capitale, green business, ecolabel. Biologico spesso ripropone, esteticamente rivisitato, lo stesso sistema inquinante e ingiusto che vogliamo combattere!”
“Le leggi servono per tutelare i consumatori” ribadì il giudice “la loro salute; le certificazioni garantiscono la qualità. Che cosa garantite, voialtri clandestini?”
“Abbiamo un protocollo di autocertificazione” disse deciso il pane “per difenderci dagli sfruttatori e dagli imbroglioni abbiamo dovuto inventare un sistema di autocontrollo.” Fece una breve pausa. Poi ammise: “E’ vero, all’inizio pensavamo che la relazione diretta tra chi produce e consuma generasse spontaneamente una forma di garanzia e controllo. Abbiamo purtroppo costatato sul campo che non è così, che quando si aprono spazi di mercato arrivano gli approfittatori, perché purtroppo le persone disoneste e gli stronzi esistono anche fra i contadini biologici, certificati o meno.”
“Moderi i termini, imputato.”
“Chiedo scusa. Devo dire che certe espressioni non sono … del mio sacco.”
Battutaccia! pensò la farina, tra nervosi sbuffi bianchi.
“Comunque, dicevo” proseguì il pane “da noi ognuno è responsabile dell’affidabilità di ciascuno. I problemi di controllo sono problemi di tutti. ‘Controllo partecipato’ si potrebbe chiamare, ovvero un sistema di garanzia affinché le regole che ci siamo dati siano rispettate.”
“Ma perché non vi limitate a rispettare quelle della legge? A quanto leggo dai vostri atti, sono anche più permissive.”
“No, se vogliamo essere genuini” intervenne il vino “le nostre regole sono in opposizione alle vostre leggi, perché le leggi dell’industria e del consumo vietano ciò che non giova all’industria e al consumo.”
“Quello che dice è eretico, imputato!” tornò a ringhiare il giudice.
“Semplicemente” intervenne l’unguento per nulla intimorito “abbiamo deciso di non accettare le regole ingiuste che la legge ci impone e di inserirne altre che riteniamo fondamentali.”
“Fondamentali per cosa?”
“Per essere genuini, ovviamente.”
“Imputata pasta fresca, perché sarebbe genuina?”
“Perché sono fresca, lo dice il mio nome, e ho fatto poca strada.”
“E lei, marmellata?”
“Perché sono stata coltivata e lavorata in piccole aziende biologiche.”
“E lei, uovo?”
“Perché dall’allevamento (all’aperto) fino al banco è stata la stessa persona a seguirmi e a prendersi cura di me, con le sue mani.”
“E perché quella persona è al mercato, per vederci” incalzò il pane.
“Vostro onore” disse con voce pietosa l’avvocato difensore “circa il 20% dei prodotti venduti nei mercati di Campi Aperti (**) sono fuorilegge. Una realtà che non può essere ignorata!”
“Appunto!” disse il giudice. Tirò una martellata sull’incudine dello scranno per annunciare che avrebbe emesso la sentenza. L’eco turbò appena la schiumosa nebbiolina che calava dall’alto.
(*) I dialoghi degli imputati sono liberamente tratti dal documento “CampiAperti – Riflessioni su 10 anni della nostra storia E’ possibile un’altra economia?” reperibile sul sito http://www.autistici.org/campiaperti. Nel gioco narrativo non ho esaurito gli argomenti da trattare sul tema genuini/clandestini. In particolare meritano considerazione i temi legati all’accesso alla terra, al nuovo modo di fare economia, alla sovranità alimentare. Ci ritorneremo. MF.
(**) Per la storia di Campi Aperti e informazioni sul movimento Genuino-Clandestino visitate i siti http://genuinoclandestino.noblogs.org/ e http://www.autistici.org/campiaperti, compreso il disciplinare dell’autocertificazione.