Pubblicato sul numero 8 di BARRICATE un breve racconto per avvicinare il mondo intrigante del movimento dei Genuini Clandestini, produttori di cibi genuini, appunto, ma con non pochi problemi per la commercializzazione.
“In piedi. Entra la Corte.”
Il
rumore sordo e disordinato del pubblico, degli imputati e degli
avvocati che si alzavano accompagnò l’ingresso dei giudici nell’aula
austera del tribunale, con i legni e le trabeazioni classicheggianti che
si perdevano in alto, dove le capriate rimanevano avvolte nella
semioscurità e da dove calava una specie di nebbia schiumosa che
permeava ogni cosa con un sentore di stantio. La Corte prese posto sugli
scranni più alti, sotto un grande simbolo della bilancia in equilibrio,
il piatto di sinistra a reggere il logo del Copyright e quello di
destra a sostenere una freccia di diagramma sparata al cielo che
simboleggiava la vertiginosa crescita del PIL.
“Leggo le accuse”
disse il giudice con tono severo “gli imputati rimangano in piedi.”
Accompagnato dall’eco frusciante di chi è stato autorizzato a rimettersi
a sedere, l’uomo di legge proseguì: “Siete accusati di aver
contravvenuto alle norme che riguardano la trasformazione e il
confezionamento dei prodotti alimentari, della mancata applicazione dei
marchi di certificazione, nonché della loro irregolare
commercializzazione. Tutto ciò fa di voi dei clandestini. Vi dichiarate
colpevoli o innocenti?” Il giudice si tolse gli occhiali e guardò la
fila di imputati in piedi alla sbarra.
Otto clandestini che lo
fissavano per nulla intimoriti, anzi, orgogliosi delle pesanti accuse
che erano appena state proferite. Il pane sembrava quasi sorridere, con
il suo sguardo bonario; il vino ostentava soddisfatto il suo bel colore
invitante, nella bottiglia priva di etichetta; l’unguento per la pelle
mostrava un distacco olimpico, il sacco di farina perdeva sbuffi
biancastri e sembrava solo chiedere di potersi finalmente sedere, l’uovo
gestiva con dignità il suo precario equilibrio, il miele si era
indurito in un freddo silenzio e la marmellata di peperoni piccanti
fissava incazzata la parete alle spalle dei giudici. La irritava
terribilmente la scritta sotto la bilancia: Servizio di giustizia
certificato isonovemilaerotti. E poi, quasi fosse una firma, la sequenza
dei più noti loghi delle multinazionali planetarie, quelli che non
hanno bisogno di scritte per essere riconosciuti, tutti raggruppati
sotto l’odiosa frasetta “Questo servizio è stato presentato da …”.
(Per
la storia di Campi Aperti e informazioni sul movimento
Genuino-Clandestino visitate i siti
http://genuinoclandestino.noblogs.org/ e
http://www.autistici.org/campiaperti, compreso il disciplinare
dell’autocertificazione.)
“Allora? Come vi dichiarate?” ringhiò il giudice dopo aver atteso ben cinque secondi.
“Colpevole!” affermarono con orgoglio tutti e otto in sequenza.
“No!”
sembrò piagnucolare l’avvocato difensore, che scattò in piedi rivolto
al giudice. “Vostro onore, non liquidi la cosa con questa semplice
ammissione di colpevolezza. Ammettono la clandestinità, ma per orgoglio e
per necessità. Prima di formulare un giudizio, cerchiamo di capire
meglio.”
Il giudice si rivolse agli imputati: “Siete andati all’Asl a
chiedere quello che potevate vendere e come andava fatto? Siete andati
all’ente certificatore a chiedere se eravate ‘biologici’? Siete andati
al consorzio di tutela a chiedere di mettere il bollino sul vostro vino?
No! la vostra risposta è sempre no! E allora” girò lo sguardo sul
difensore “cosa c’è da capire, avvocato? Hanno infranto la legge e si
sono dichiarati colpevoli.”
“Non sono solo clandestini.”
“Ah, no? E cos’altro sono?”
“Sono genuini.”
“E’
un termine giuridicamente senza senso” lo rimbrottò il giudice “per
essere prodotti, confezionati e commercializzati, i generi alimentari
devono seguire le norme di legge, e se vogliono dichiararsi biologici,
devono farsi certificare. Genuini o meno che siano.”
“Con il nostro
gesto” disse perentorio il miele “vogliamo denunciare un insieme di
norme ingiuste che equiparano i prodotti contadini trasformati a quelli
delle grandi industrie alimentari e ci rendono fuorilegge.”
“E poi”
aggiunse la farina tra sbuffi biancastri “basta con il cosiddetto
‘biologico’, che può essere anche industria, può essere sfruttamento,
alienazione, oppressione. Biologico può voler dire furbo arricchimento,
logiche del capitale, green business, ecolabel. Biologico spesso
ripropone, esteticamente rivisitato, lo stesso sistema inquinante e
ingiusto che vogliamo combattere!”
“Le leggi servono per tutelare i
consumatori” ribadì il giudice “la loro salute; le certificazioni
garantiscono la qualità. Che cosa garantite, voialtri clandestini?”
“Abbiamo
un protocollo di autocertificazione” disse deciso il pane “per
difenderci dagli sfruttatori e dagli imbroglioni abbiamo dovuto
inventare un sistema di autocontrollo.” Fece una breve pausa. Poi
ammise: “E’ vero, all’inizio pensavamo che la relazione diretta tra chi
produce e consuma generasse spontaneamente una forma di garanzia e
controllo. Abbiamo purtroppo costatato sul campo che non è così, che
quando si aprono spazi di mercato arrivano gli approfittatori, perché
purtroppo le persone disoneste e gli stronzi esistono anche fra i
contadini biologici, certificati o meno.”
“Moderi i termini, imputato.”
“Chiedo scusa. Devo dire che certe espressioni non sono … del mio sacco.”
Battutaccia! pensò la farina, tra nervosi sbuffi bianchi.
“Comunque,
dicevo” proseguì il pane “da noi ognuno è responsabile
dell’affidabilità di ciascuno. I problemi di controllo sono problemi di
tutti. ‘Controllo partecipato’ si potrebbe chiamare, ovvero un sistema
di garanzia affinché le regole che ci siamo dati siano rispettate.”
“Ma perché non vi limitate a rispettare quelle della legge? A quanto leggo dai vostri atti, sono anche più permissive.”
“No,
se vogliamo essere genuini” intervenne il vino “le nostre regole sono
in opposizione alle vostre leggi, perché le leggi dell’industria e del
consumo vietano ciò che non giova all’industria e al consumo.”
“Quello che dice è eretico, imputato!” tornò a ringhiare il giudice.
“Semplicemente”
intervenne l’unguento per nulla intimorito “abbiamo deciso di non
accettare le regole ingiuste che la legge ci impone e di inserirne altre
che riteniamo fondamentali.”
“Fondamentali per cosa?”
“Per essere genuini, ovviamente.”
“Imputata pasta fresca, perché sarebbe genuina?”
“Perché sono fresca, lo dice il mio nome, e ho fatto poca strada.”
“E lei, marmellata?”
“Perché sono stata coltivata e lavorata in piccole aziende biologiche.”
“E lei, uovo?”
“Perché
dall’allevamento (all’aperto) fino al banco è stata la stessa persona a
seguirmi e a prendersi cura di me, con le sue mani.”
“E perché quella persona è al mercato, per vederci” incalzò il pane.
“Vostro
onore” disse con voce pietosa l’avvocato difensore “circa il 20% dei
prodotti venduti nei mercati di Campi Aperti sono fuorilegge. Una realtà
che non può essere ignorata!”
“Appunto!” disse il giudice. Tirò una
martellata sull’incudine dello scranno per annunciare che avrebbe emesso
la sentenza. L’eco turbò appena la schiumosa nebbiolina che calava
dall’alto.
Per la storia di Campi Aperti e informazioni sul movimento Genuino-Clandestino visitate i siti genuinoclandestino.noblogs.org e Campiaperti, compreso il disciplinare dell’autocertificazione.